La famiglia è l’entità base della nostra società; essa deve considerarsi formazione sociale per eccellenza, in quanto momento essenziale di affermazione della persona e di sviluppo della sua personalità.
Mentre una volta la famiglia, come è noto, si basava esclusivamente sul matrimonio, attualmente, da un canto si è modificata la nozione di “matrimonio” (perché tale è anche quello tra persone dello stesso sesso secondo la nozione europea di “matrimonio”) e, d’altro canto la famiglia è anche quella di fatto che si basi su una convivenza.
La modifica della nozione di “matrimonio” e “famiglia” discende da una lettura costituzionalmente orientata delle norme ordinarie ed è imposta dalla nostra adesione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
E’ noto che le norme della CEDU per un verso contemplano diritti fondamentali d’immediata efficacia e diretta applicabilità (i giudici della Cassazione, così come i giudici comuni, sono chiamati a dare applicazione diretta della CEDU) e per altro verso hanno la funzione di orientare l'interpretazione delle leggi ordinarie interne poichè è proprio alla Convenzione Edu che i giudici nazionali devono fare riferimento nell'applicare il diritto.
Inoltre, secondo il costante orientamento della Corte costituzionale, l’interpretazione e l’applicazione delle norme della CEDU, pur essendo affidate ai giudici degli Stati contraenti, sono attribuite, in via definitiva, alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo con la conseguenza che l’interpretazione di dette norme data dalla Corte europea vincola, anche se non in modo incondizionato, detti giudici e costituisce il “diritto vivente” della Convenzione.
Pertanto, anche l’interpretazione di dette norme, fatta dalla Corte di Strasburgo, vincola tutto sommato il giudice nazionale che, per discostarsene deve adeguatamente motivare.
In tema di matrimonio, l’art. 12 della CEDU dispone che «uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi».
La Corte di Strasburgo, nella nota sentenza sul caso Schalk eKopf c./ Austria, ha dichiarato che «la Corte non considererà più che il diritto al matrimonio di cui all'articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto».
Il diritto al matrimonio, cioè, deve essere riconosciuto a ogni uomo e ad ogni donna, senza limitazione della facoltà di scegliere liberamente il partner (dell’uno o dell’altro sesso).
La parola “matrimonio” non indica più solo i matrimoni tra persone di genere opposto e diventa, per definizione, gender-neutral. Il termine “matrimonio” include nel suo significato ogni matrimonio.
In ogni caso, come ha riconosciuto la Corte di Cassazione (sentenza 15 marzo 2012 n. 4184) questo mutamento di rotta non comporta che gli Stati che aderiscono alla CEDU devono consentire il matrimonio anche alle coppie dello stesso sesso: in ossequio al principio del cd. “margine di apprezzamento” dei singoli Stati contraenti, la competenza a garantire tale diritto resta in capo ai Parlamenti nazionali.
Le norme europee infatti, «pur riconoscendo detti diritti, sono state tuttavia formulate in modo tale da separare il “riconoscimento” dalla “garanzia” degli stessi», che è rimessa ai legislatori nazionali. (così la Corte di Cassazione sez. I civ., sentenza 15.03.2012 n. 4184).
Quanto all'ordinamento italiano, osserva la Suprema Corte nella sentenza sopra richiamata (resa nel caso di due persone dello stesso sesso che si erano sposate all'estero e richiedevano la trascrizione del matrimonio al registro dello stato civile del loro comune di residenza), né la legge ordinaria né la Costituzione italiana contengono una definizione del matrimonio. Pur mancando nel codice civile italiano una espressa enunciazione, si osserva che la Cassazione aderisca all'orientamento, di gran lunga prevalente, che ritiene la diversità di genere condizione implicitamente prevista dal codice stesso e questo si ricaverebbe «in primo luogo, dall'art. 107, comma 1, c.c. che, nel disciplinare la forma della celebrazione del matrimonio, prevede tra l’altro che l’ufficiale dello stato civile celebrante «riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie».
Perciò, essendo stato riconosciuto a livello europeo il diritto al matrimonio tra persone dello stesso genere, sussiste l’obbligo dello Stato di adeguare la legislazione alla mutata nozione di matrimonio.
Lo Stato italiano, in adeguamento, ha riconosciuto l'istituto delle Unioni Civili, introdotto dall'art 1, commi 1-35, della Legge 20 maggio 2016, n. 76 (cosiddetta legge Cirinnà) in vigore dal 5 giugno 2016, con la quale si è regolamentata la convivenza tra soggetti maggiorenni dello stesso sesso.
Oltre che sulla nozione di “matrimonio” la Corte di Strasburgo, nella sentenza Schalk e Kopf c/ Austria, ha anche apportato l’ulteriore significativo mutamento alla nozione di famiglia.
La giurisprudenza anche interna, aveva già riconosciuto le famiglie di fatto (basate sulla convivenza), già ricondotte nella nozione di “vita familiare”; ma con questa sentenza i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che sarebbe oramai “artificiale” mantenere la pregressa distinzione tra omosessuali ed eterosessuali e che «le coppie dello stesso sesso hanno la stessa capacità delle coppie di sesso diverso di entrare in relazioni stabili e impegnative», perciò, concludono che le unioni omosessuali non saranno più comprese soltanto nella nozione di “vita privata”, ma nella nozione di “vita familiare” pure contenuta nell'art. 8 CEDU. Anche la Corte Costituzionale nella sentenza n. 138 del 2010 aveva mosso un passo nella stessa direzione, avendo ritenuto che le «unioni omosessuali» sono protette dall'art. 2 Cost. come le convivenze eterosessuali, così da suggerire l’accostamento alla nozione di “famiglia di fatto”, nota al nostro ordinamento.
Con ciò dunque, anche nel nostro ordinamento giuridico le unioni omosessuali sono considedrate “famiglia”.
Quindi, la nozione di famiglia, ricomprende, oltre al classico nucleo fondato sul matrimonio, anche i nuclei formati dalle unioni di fatto, ovvero la convivenza de facto e le unioni civili.
La convivenza di due persone è dunque un “fatto” che – con l’entrata in vigore della L. 20 maggio 2016, n. 76 (sempre la legge Cirinnà che ha disciplinato le Unioni Civili) – diventa giuridicamente rilevante, perché da essa discendono determinati effetti giuridici.
I conviventi devono essere due persone maggiorenni e devono avere dichiarato di costituire un’unica famiglia anagrafica, in assenza dei vincoli indicati dall'art. 1, comma 36, L. 20 maggio 2016, n. 76 dei conviventi fra di loro e, limitatamente ai vincoli di coniugio e di unione civile, anche di ciascuno dei conviventi con terzi. Laddove uno o entrambi i conviventi fossero legati da un vincolo di matrimonio o di unione civile con terze persone, essi potranno formare una famiglia anagrafica ma non anche, stante il rilevato limite di legge, essere iscritti come conviventi di fatto.
Nel momento in cui dovesse sopravvenire lo scioglimento o, comunque, la cessazione degli effetti civili del matrimonio, dal momento dell’annotazione di tale status a margine dell’atto di nascita degli interessati, i componenti dell’unica famiglia anagrafica dovranno essere considerati, per legge, anche conviventi di fatto, essendo venuto meno l’impedimento legale, senza che sia a questo scopo necessario acquisire alcuna manifestazione di volontà in tal senso da parte degli interessati.
Per tutte quelle coppie che alla data del 5 giugno 2016 già formavano una famiglia anagrafica: se entrambi i conviventi non avevano in essere pregressi vincoli di matrimonio, esse si considerano di diritto anche conviventi di fatto a tutti gli effetti.