Il contratto di locazione commerciale – ad uso diverso dall’abitativo – è disciplinato dalla legge 27 luglio 1978, n.392 ed in particolare dagli artt. 27 e seguenti. Per colmare le lacune di tale disciplina o per espresso rinvio della medesima si applicano le norme del codice civile – artt. 1571 e segg. c.c.. La peculiarità è che l’immobile deve essere destinato ad “uso diverso da quello abitativo”, cioè deve essere adibito all’esercizio di una delle attività di cui al primo comma dell’art. 27 (attività industriali, commerciali, artigianali, di interesse turistico, di lavoro autonomo) ovvero ad una di quelle attività elencate dall’art. 42 (attività ricreative, assistenziali, culturali e scolastiche).
Si ha uso diverso da quello abitativo anche quando l’immobile locato è destinato ad ospitare sedi di partiti e sindacati e quando la qualità di conduttore è assunta dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali.
L’art. 80 della Legge 392/1978 – così come modificato dalla sentenza della Corte costituzionale 18 febbraio 1988, n. 185 – stabilisce che «se il conduttore adibisce l’immobile ad un uso diverso da quello pattuito, il locatore può chiedere la risoluzione del contratto entro tre mesi dal momento in cui ne ha avuto conoscenza. Decorso tale termine senza che la risoluzione sia stata chiesta, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all’uso effettivo dell’immobile. Qualora la destinazione ad uso diverso da quello pattuito sia parziale, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all’uso prevalente».
Quanto alla forma del contratto, il codice civile prescrive la forma scritta ad substantiam soltanto per le locazioni di immobili che superino la durata di nove anni (art. 1350, n. 8, c.c.), per le quali è anche prevista la trascrizione nei registri immobiliari ex art. 2630, n. 8, c.c.
In realtà, l’obbligo di registrazione del contratto previsto dalla legge 311 del 2004 impone che sia stipulato in forma scritta a pena di nullità. La Cassazione con l’ordinanza n. 20858, depositata il 6 settembre 2017, ha ribadito il consolidato orientamento in tema di locazione immobiliare per uso non abitativo, secondo il quale «la mancata registrazione del contratto determina, ai sensi dell'art. 1, comma 346, della legge n. 311 del 2004, una nullità per violazione di norme imperative ex art. 1418 c.c., la quale, in ragione della sua atipicità, desumibile dal complessivo impianto normativo in materia ed in particolare dalla espressa previsione di forme di sanatoria nella legislazione succedutasi nel tempo e dall'istituto del ravvedimento operoso, risulta sanata con effetti "ex tunc" dalla tardiva registrazione del contratto stesso, implicitamente ammessa dalla normativa tributaria, coerentemente con l'esigenza di contrastare l'evasione fiscale e, nel contempo, di mantenere stabili gli effetti negoziali voluti dalle parti, nonché con il superamento del tradizionale principio di non interferenza della normativa tributaria con gli effetti civilistici del contratto, progressivamente affermatosi a partire dal 1998» (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 10498 del 28/04/2017, Rv. 644006 - 01).
Secondo i Giudici di legittimità, dunque, la nullità del contratto di locazione ad uso non abitativo per violazione della legge che ne impone la registrazione ai fini fiscali, è sanabile con la registrazione stessa, benché tardiva, in ragione del principio di stabilità degli effetti negoziali voluti dalle parti e di non interferenza della normativa tributaria con quella civilistica.
La Cassazione ha precisato che «quella della nullità del contratto non registrato costituisce fattispecie differente rispetto a quella [...] che si determina in caso di pattuizioni volte a determinare un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, laddove sussista cioè tra le parti un vero e proprio accordo simulatorio in relazione all'entità del canone, onde ad essa non è comunque applicabile l'art. 13, comma 1, della legge 9 dicembre 1998 n. 431, invocato dal ricorrente, e riguardante esclusivamente tale diversa fattispecie». Il contratto può essere stipulato con scrittura privata. Non è necessaria l’autentica delle firme da parte del notaio.
A norma dell’art 27, L. n. 392/78 la durata delle locazioni di immobili urbani adibiti ad attività industriali, commerciali, artigianali o di interesse turistico non può essere inferiore a sei anni ovvero a nove anni se l'immobile è adibito ad attività alberghiere. Alla prima scadenza, il contratto stipulato per tale durata minima si rinnova automaticamente per un periodo di tempo equivalente, ad eccezione del caso in cui sussista uno dei motivi indicati all'art. 29 legge 392/78 che impedisce il rinnovo automatico.
La regola del rinnovo automatico del contratto alla prima scadenza non è derogabile dalle parti ed eventuali clausole contrattuali che prevedano diversamente sono nulle. Il diniego alla rinnovazione del contratto alla prima scadenza si esercita mediante l'invio di una disdetta, che deve essere motivata, redatta in forma scritta e inviata mediante lettera raccomandata.
La regola della rinnovazione tacita del contratto alla scadenza trova applicazione anche per gli immobili condotti in locazione da una Pubblica Amministrazione.
Per tali contratti infatti, è esclusa solo la rinnovazione tacita del contratto di locazione per “facta concludentia sulla base della semplice permanenza materiale in un immobile per il quale sia intervenuta la scadenza del preesistente contratto - e quindi l’ipotesi riconducibile alla disciplina dell’art. 1597 c.c. – in ragione della necessità della forma scritta ad substantiam che postula che, di regola, la volontà di obbligarsi da parte della P.A. non possa desumersi in via implicita per un mero comportamento, magari omissivo.
Rimane salva tuttavia, la possibilità che la continuazione dell’originario rapporto avvenga in forza di una specifica clausola del contratto precedentemente concluso. Del resto, il dato normativo è chiaro ed inequivocabile: l’art. 42 della legge 392/78 prevede espressamente che ai contratti di locazione e sublocazione di immobili urbani, fra i quali rientrano quelli stipulati dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali in qualità di conduttori, devono applicarsi i termini di durata di cui all’art. 27, oltre che le disposizioni recate dagli articoli 32 (aggiornamento del canone), 41 (che richiama a sua volta gli articoli da 7 a 11, in materia di spese di registrazione, oneri accessori e deposito cauzionale), nonché le disposizioni processuali (Tit. I Capo III) ed il preavviso per il rilascio di cui all'art. 28.
La stipulazione di un contratto di locazione per una durata inferiore al termine minimo di legge non determina la nullità del contratto, ma l’invalidità della clausola derogativa e di conseguenza l’automatica eterointegrazione del contratto, ai sensi del secondo comma dell’art. 1419 c.c., con l’applicazione della durata minima prevista dalla norma.
Gli unici casi in cui le parti possono validamente stipulare una locazione di durata inferiore a quella “minima” sono rappresentate:
a) dall’ipotesi in cui l’attività commerciale esercitata nell'immobile abbia, per sua stessa natura, un carattere di transitorietà;
b) sia pattuito un canone annuo superiore ad euro 250.000 e trattasi di immobile non qualificato di interesse storico a seguito di provvedimento regionale o comunale.
In altri articoli specifici sono stati trattati il contratto di locazione transitoria e le differenze con il contratto stagionale e i temporary stores, nonché le novità intervenute nel mondo delle “grandi locazioni”.
Qui valga solo notare come non si deve confondere la locazione transitoria con la cd. locazione stagionale.
Sono tipologie entrambe previste dall’art. 27 della legge n. 392/1978 quali distinte dalla locazione ordinaria in quanto dirette a soddisfare esigenze particolari.
Il carattere della stagionalità, o della periodicità dell’evento, è però differente dalla transitorietà, per il fatto che l’evento si ripete ogni anno, nello stesso periodo dell’anno. Ad esempio: la stagione estiva in qualche località balneare/montana, la raccolta dell’uva, eventi e fiere ecc.
Secondo quanto stabilito dal comma 6 dell’articolo 27 della Legge 392/1978, se la locazione di tipo non abitativo, o strumentale, ha carattere stagionale, il locatore è obbligato a locare l’immobile, per la medesima stagione dell’anno successivo, allo stesso conduttore che gliene abbia fatta richiesta con lettera raccomandata prima della scadenza del contratto. L’obbligo del locatore ha la durata massima di sei anni consecutivi o di nove se si tratta di utilizzazione alberghiera.
La locazione transitoria – insieme a quella cd. stagionale – è prevista dall’art. 27 della legge n. 392/1978.
La transitorietà (a differenza della stagionalità) è legata ad un evento che per sua natura è destinato ad esaurirsi in un arco di tempo relativamente breve e non si ripete ogni anno.
Secondo la giurisprudenza, la natura transitoria va individuata nella volontà delle parti quale desumibile dal contenuto negoziale e dal comportamento complessivo assunto dai contraenti, senza che possa assumere rilevanza esclusiva il tipo di attività esercitata dal conduttore (per tutte, Cass. civ. Sez. III, 20/08/1990, n. 8489 in Mass. Giur. It., 1990).
In alcuni casi, la natura transitoria dell'attività risulta dalle particolari caratteristiche del prodotto in relazione a determinate circostanze temporali: la vendita di prodotti in occasione di avvenimenti specifici, o con riguardo a un complesso di determinati beni (ad esempio nel caso di fallimento o di asta pubblica), oppure ancora il deposito e la vendita di blocchi o quantità di mobili o arredamenti reperiti sul mercato o la vendita di rimanenze di magazzino o prototipi. Nelle locazioni commerciali è comune la locazione temporanea degli spazi comuni nei centri commerciali.
Da una disamina della giurisprudenza sul punto emerge però che al di là delle massime, la rilevanza conferita alla “condizione oggettiva” costituita dalla natura dell’attività da esercitare, è sicuramente pregnante, poiché le verifiche sul “modo in cui l'attività stessa si atteggia in concreto come desumibile dalla volontà delle parti, tenuto conto cioè delle clausole contrattuali e del comportamento complessivo delle parti” vengono effettuate al solo fine di escludere che, per attività connotate dal requisito della transitorietà, si possa considerare validamente stipulata una locazione transitoria.
Oltre alla locazione temporanea, l’altro caso, di recente introduzione nell'ordinamento, in cui le parti possono validamente stipulare una locazione di durata inferiore a quella “minima” riguarda il mercato delle grandi locazioni a uso non abitativo, cioè i contratti per i quali sia pattuito un canone annuo superiore a euro 250 mila euro.
L'articolo 18 del decreto-legge n. 133 del 12 settembre 2014 detto ''Sblocca Italia'', convertito nella legge 11 novembre 2014, n. 164, recante "Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività' produttive", pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 262 dell'11 novembre 2014, cd. decreto “sblocca Italia” ha aggiunto all'articolo 79 della legge 27 luglio 1978 n. 392, un terzo comma col quale si prevede, nel testo coordinato con la legge di conversione, che: «In deroga alle disposizioni del primo comma, nei contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, anche se adibiti ad attività alberghiera, per i quali sia pattuito un canone annuo superiore ad euro 250.000, e che non siano riferiti a locali qualificati di interesse storico a seguito di provvedimento regionale o comunale, e' facoltà delle parti concordare contrattualmente termini e condizioni in deroga alle disposizioni della presente legge. I contratti di cui al periodo precedente devono essere approvati per iscritto».
Per effetto di tale previsione dunque, è possibile che le parti inseriscano nei contratti di locazione ad uso diverso dall’abitativo, clausole che incidano sulla durata del contratto, o che attribuiscono un maggior canone al locatore, o che comunque deroghino alle disposizioni della legge 392/1978 ove ricorra il presupposto di ordine quantitativo basato sull'ammontare dell'importo del canone annuo pattuito, (che deve superare euro 250.000,00), oltre che quello formale costituito dalla “approvazione per iscritto” del contratto.
Pertanto, nelle “grandi locazioni” commerciali possono essere oggetto di libera contrattazione tra le parti le convenzioni derogative su durata minima, rinnovo automatico, prelazioni, recesso per gravi motivi, indennità a fine locazione e indicizzazione e/o aumenti del canone.
Dovranno dunque ritenersi lecite, nelle locazioni stipulate ai sensi dell'articolo 18 del Dl 133/2014, clausole di aggiornamento del canone per rivalutazione monetaria che superino i limiti quantitativi previsti dall'articolo 32 della legge 392/1978 (come modificato dall'articolo 41, comma 16-duodecies lettera a) del Dl n. 207 del 2008, convertito dalla legge 14/2009).
Tale norma difatti, già prevede la liceità di aumenti anche superiori al 75 per cento della variazione Istat, ma solo per le locazioni di durata superiore ai sei o nove anni o per le locazioni stagionali.
Così dovranno considerarsi lecite le clausole di rinunzia del conduttore all'indennità di avviamento commerciale a fine locazione o di rinuncia anticipata del conduttore alla prelazione o a ricevere la denuntiatio, ex articolo 38 della legge 392/1978; ovvero clausole con cui si rinunzi ad esercitare il recesso anche per gravi motivi.
Si deve anche ritenere che la liberalizzazione del mercato delle grandi locazioni commerciali abbia ampliato l'autonomia contrattuale anche in relazione l'ammontare del canone, da considerarsi rimesso alla libera determinazione delle parti sotto ogni profilo. Con ciò dovendosi ormai considerare legittime – per detti contratti - clausole prevedenti il pagamento di somme diverse dal canone o dal deposito cauzionale pretese dal locatore al momento della conclusione del contratto quali quelle cd. di “buona entrata”.
Secondo una consolidata giurisprudenza, in materia di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da abitazione, resta vietato al locatore di pretendere il pagamento di somme di tal genere in quanto privo di ogni giustificazione nel sinallagma contrattuale, e il relativo patto è nullo ai sensi dell'art. 79 della citata legge perchè diretto ad attribuire al locatore un vantaggio in contrasto con le disposizioni in materia.
Del pari, illegittime vengono considerate quelle pattuizioni concernenti il pagamento di oneri accessori per forniture non effettivamente prestate, «poichè, per il principio di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 9, applicabile alle locazioni di immobili adibiti ad uso non abitativo, sono a carico del conduttore le sole spese relative alla fornitura di un servizio goduto dal conduttore per cui, se tale presupposto difetta, mancando ogni sinallagmaticità, non è dovuto alcun corrispettivo per la stessa, nonostante che esso sia previsto in contratto» (Cass. civ. Sez. III, 30/09/2014, n. 20551 (rv. 632407) Vita Notar., 2015, 1, 328).
L'articolo 18 del Dl 133/2014 è entrato in vigore il 13 settembre 2014 e la “liberalizzazione” delle grandi locazioni” commerciali riguarda quindi soltanto i contratti stipulati a far tempo da tale data.
Per esplicita previsione di legge, tali disposizioni - di cui al comma 1 - non si applicano ai contratti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto 133/2014; così pure, ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione continueranno ad applicarsi ad ogni effetto le disposizioni previgenti.