E’ possibile che i coniugi propongano una separazione o un divorzio giudiziali e che successivamente raggiungano un accordo. Fatto l’accordo, e fatto esso confluire nelle c.d. conclusioni comuni o congiunte (con conseguente trasformazione del divorzio da contenzioso in congiunto) e pronunciata la sentenza di primo grado, si può impugnare quella sentenza?
E’ capitato il caso concreto di due coniugi che dopo l’accordo e le conclusioni congiunte per la sentenza di divorzio, avevano impugnato la sentenza emessa nella specie, dal Tribunale di Treviso.
Evidentemente per effetto di un ripensamento, il marito aveva impugnato in appello la sentenza chiedendo una riforma di essa in punto di visite al figlio, di assegno di mantenimento per il figlio ed esclusione di quello divorzile. A fronte dell’appello, anche la moglie aveva proposto appello incidentale con richieste e motivi speculari contrari.
La Corte d’appello di Venezia aveva dichiarato l’inammissibilità dell’appello principale e di quello incidentale, essenzialmente, per carenza di interesse ad impugnare stante la mancanza di soccombenza (infatti, la sentenza non aveva fatto altro che trasfondere l’accordo intercorso tra le parti).
Il marito aveva poi proposto ricorso in Cassazione. La Suprema Corte con la sentenza n.18066 del 20/08/2014 ha respinto il ricorso e per l’effetto ha confermato la pronuncia di inammissibilità della dell’appello perché «[..] non vi è interesse ad impugnare, senza soccombenza».
Data la natura negoziale dell’accordo di separazione tra i coniugi omologato con provvedimento giudiziale, secondo la giurisprudenza resta impregiudicata, anche dopo l’avvenuta omologazione, la facoltà delle parti di esperire nei confronti della convenzione l’azione di annullamento per vizi della volontà, in base alle regole generali del contratto (estensibili ai negozi giuridici non patrimoniali, genus al quale appartengono quelli di diritto di famiglia: Cass., 29 marzo 2005, n. 6625; Cass., 4 settembre 2004, n. 17902; Cass., 20 novembre 2003, n. 17607; Cass., 5 marzo 2001, n. 3149). In questi termini si è espressa Cass. civ., sez. I, 22 novembre 2007, n. 24321, precisando, inoltre, sotto il versante processuale, che è preclusa la possibilità per uno dei coniugi di ottenere l’annullamento dell’accordo (o la sua nullità) attraverso il procedimento camerale disciplinato dall’art. 710 c.p.c.. Tale impostazione risulta confermata da Cass. civ., 20 marzo 2008, n. 7450.
Da ciò si ricava anche che non ha senso che nelle condizioni di separazione consensuale o divorzio congiunto si preveda tra l’altro, che le parti rinuncino all'impugnazione della sentenza.
Tra l'altro, la questione si dovrebbe porre nel senso di chiedersi se sia valida la rinuncia preventiva all'impugnazione, se cioè possa la parte, unilateralmente o per accordo con la controparte, rinunciare ad impugnare una sentenza non ancora pronunciata.
Per distinguerlo da similari fattispecie di rinuncia, può denominarsi questo ipotetico negozio come “rinuncia cieca”, in quanto il rinunciante si priva della facoltà di impugnare una sentenza della quale ignora i contenuti.
In tema di gravami, l’ordinamento definisce e, in certa misura, legittima istituti abdicativi, i quali tuttavia riguardano una sentenza già emessa, o una parte della medesima, che il soccombente, in ragione delle pertinenti valutazioni, accetta senza proporre l’impugnazione (acquiescenza, renuntiatio appellationi interponendae) ovvero accetta con abbandono dell’impugnazione proposta (rinuncia successiva, renuntiatio appellationi interpositae).
Gli argomenti elaborati dalla dottrina tradizionale per sostenere la tesi dell'invalidità della rinuncia preventiva all'impugnazione sono diffusamente accolti nella letteratura odierna, che delinea un quadro sostanzialmente uniforme nel senso dell’inammissibilità di quel negozio giuridico processuale. L’acquiescenza «può essere fatta solo dopo l’emanazione della sentenza, perché solo allora la parte sarà in grado di esercitare consapevolmente il suo potere dispositivo», essendo quindi inammissibile una «acquiescenza preventiva» (Cass., Sez. Un, Sentenza 9/10/1972, n. 2931; Cass., Sez. 3, Sentenza 7/7/1975, n. 2640; Cass., Sez. 1, Sentenza 16/10/1974, n. 2870; Cass., Sez. 1, Sentenza 30/12/1981, n. 6773).
E il motivo è che con la rinuncia preventiva al gravame, invero, «non si rinuncerebbe ad un diritto (che non è ancora sorto), ma si finirebbe con il regolare convenzionalmente il processo, modificandone norme d’ordine pubblico».